Luca e la Montagnaterapia: un trekking sulle Dolomiti per sconfiggere la tossicodipendenza

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Alte vie non di fuga ma di responsabilizzazione. Per percorrere sentieri nuovi e rigeneranti, dopo aver battuto strade corrose dal sale delle dipendenze. La montagna come simbolo di sfida con se stessi, l’approdo in vetta di un traguardo raggiunto ma mai definitivamente conquistato. Perché basta un piede in fallo per scivolare giù lungo la china e ritrovarsi al punto di partenza. Per Luca e per i suoi compagni il trekking  d’alta quota è diventato una metafora di vita: mettersi alla prova, sviluppare il senso del limite, faticare per arrivare in cima: liberarsi dalla schiavitù delle sostanze stupefacenti. La chiamano Montagnaterapia, un progetto promosso da una rete di soggetti e cooperative sociali della Lombardia, che mira a restituire indipendenza fisica e mentale a coloro che, finiti nel tunnel della droga, dell’alcool e del gioco d’azzardo, stanno cercando un’exit strategy.

La sua voce tradisce un forte desiderio di riscatto. Luca ha 29 anni, è di Parabiago, nell’hinterland milanese. Racconta di essersi avvicinato alla droga a 17 anni: “Un po’ per gioco, un po’ per curiosità – ammette –  Premetto che provengo da una famiglia normalissima, nella quale non c’erano grossi problemi. All’origine delle mie azioni un malessere interiore che non mi sapevo spiegare. Le cattive compagnie hanno fatto il resto. Ho cominciato con la cannabis per poi arrivare all’eroina”. Luca inizia a tenere in piedi una doppia vita: una di facciata, pulita, da manager della ristorazione per Mc Donald’s, e una sotterranea, fatta di eccessi e di caccia a quelle sostanze delle quali non riesce più a fare a meno. Dopo aver lavorato per sette anni in Italia, decide di trasferirsi a Londra ed intraprendere la carriera di chef. “Lì la mia dipendenza si acuisce – racconta lui – credevo che andarmene all’estero mi avrebbe allontanato dal problema, in realtà è stato l’opposto. Dopo un paio di anni, decido finalmente di tornare a casa e prendere il toro per le corna”. Perché nel frattempo la vita dissoluta ha prevalso su quella bella e sana fagocitandola: e la lunga relazione con la sua fidanzata finisce. “E’ stata lei a spingermi a confessare tutto ai miei genitori. Ancora non lo sapevo, ma da lì sarebbe iniziata la mia rinascita”.

Luca sceglie di entrare nella comunità di recupero per tossicodipendenti Il Molino. Da 21 mesi sta intraprendendo un percorso di purificazione dalle sostanze che hanno danneggiato il suo corpo e la sua mente. Per reinserirsi nella società da uomo libero. Insieme ad un’altra ventina di pazienti, tra i 20 e i 40 anni, vive la quotidianità tipica della cascina che lo ospita: “Ci svegliamo ogni mattina alle 7, facciamo ginnastica, ci dedichiamo alle pulizie, poi ciascuno esegue il compito della giornata. Chi si occupa della manutenzione del verde, chi degli animali, chi di altri lavori agricoli. Gli operatori sono sempre a nostra disposizione in caso di bisogno. E due volte a settimana prendiamo parte a sedute terapeutiche di gruppo”.

Ma come s’inserisce la montagna in un contesto rurale? “E’ lo scenario che consente agli ospiti di conoscersi meglio e creare legami stabili aldilà dell’ambito comunitario” spiega Fabiano Gorla, coordinatore de Il Molino che si è fatto co-promotore del progetto Montagnaterapia, organizzando nei primi sei mesi di comunità dieci uscite di gruppo, tra camminate ed arrampicate. Insieme ad altre realtà sociali è nata una vera e propria rete di servizi (che operano nello stesso settore) che, grazie alla collaborazione con una scuola di alpinismo, sfrutta la montagna come metodo terapeutico. Le guide tengono preliminarmente dei corsi, fornendo ai pazienti strumenti pratici e teorici per affrontare itinerari e scalate. Ogni mese c’è una gita e ogni anno un’escursione a tema della durata di più giorni.

L’esperienza più entusiasmante per Luca è stata quella conclusiva dell’ultimo progetto che si è svolta dal 17 al 21 settembre scorso: 5 giorni di trekking sulle Dolomiti. Un’avventura che quest’anno è stata legata a doppio filo alla memoria: in occasione del centenario della prima guerra mondiale, la scelta – spiega Fabiano Gorla – è stata quella di camminare su alcune montagne segnate drammaticamente dal conflitto globale, dove accanto alla guerra di trincea si snodavano storie di grande alpinismo”. Per questo l’iniziativa ha preso il nome di “Sentieri di guerra, sentieri di pace”.

“La montagna, in generale, a me piace molto ma devo confessare che in quei posti non ero mai stato – racconta Luca – Si è rivelato un modo per rivivere teatri di conflitto storici ma anche personali, un’opportunità per mettersi in gioco. Scarpinavamo per circa 8 ore al giorno. Abbiamo trascorso le notti nei rifugi. La prima meta è stata il Passo della Sentinella (oltre 2700 metri di altezza sulle Dolomiti Orientali). L’ho vissuta alla grande anche se la fatica fisica s’è fatta sentire. La vera sfida non è stata tanto la camminata in sé quanto, a volte, il far squadra, aspettare gli altri componenti del gruppo, mettersi alla pari. Interagire. Condividere l’esperienza a 360 gradi, insomma. Ma è stato tutto meraviglioso. Il feeling con i compagni e gli accompagnatori è stato via via più intenso”. Il luogo più emozionante per Luca? La via ferrata De Luca-Innerkofler sul Monte Paterno. “Un posto mozzafiato, non sembra neppure di questo mondo – sostiene lui – E arrivare in vetta ti fa dire: io, noi, ce la possiamo fare”.

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Luca dopo l’esperienza si vede diverso: si sente cambiato, i problemi li affronta in maniera più tranquilla e quelle inquietudini interiori che lo tenevano sveglio la notte si stanno a poco a poco diradando. Nel suo futuro intravede un graduale ritorno alla normalità: ora nei fine settimana va a casa dalla sua famiglia e dalla sua nuova fidanzata. Sta cercando lavoro: “Ho studiato come grafico ma voglio sfruttare la mia creatività unendola alla pratica per il giardinaggio sviluppata in comunità. Non mi spiacerebbe diventare garden designer”. Certo, la tentazione di farsi non lo molla: un pensiero col quale sa di essere destinato a convivere che però dovrà tenere a bada. “E’ una vita in salita, ma alla fine si raggiunge la vetta” ribadisce fiducioso. 

E’ da 35 anni che Il molino si occupa di persone risucchiate nel vortice delle dipendenze. “Lo scenario alpino è favoloso perché offre la possibilità di darsi tappe, scadenze, obiettivi da raggiungere – ribadisce Fabiano Gorla – Il contatto con la natura e l’ambiente permette ai pazienti di riconciliarsi con la vita. Ciascuno sa di doversi impegnare in prima persona e faticare con le proprie gambe. Nello stesso tempo, però, è consapevole di non essere solo. La simbologia dei sentieri percorsi a settembre ha consentito ai pazienti di riflettere ed ampliare gli orizzonti. Al ritorno, si sono sentiti più motivati e fiduciosi. Persino quelli che hanno sempre odiato la montagna sono arrivati ad apprezzarla!”.

Una nuova fase di aiuto reciproco è stata inaugurata: gli ospiti della comunità Il Molino stanno infatti sperimentando il ruolo di accompagnatori in montagna di ragazzi disabili. “Da un lato si sentono utili, dall’altro ricevono in dono da questi giovani con handicap una gioia smarrita da tempo immemore” sostiene Fabiano. Quella goccia di vitalità che diviene benzina per l’ascesa verso la guarigione.

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ELENA BAIOCCO

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